La settimana scorsa abbiamo parlato dei bambini che si offendono facilmente: oggi vi presento una situazione molto comune nella vita quotidiana.
Quante volte i bambini chiedono agli adulti di giocare con loro alle carte o ad altri giochi di società. Più piccolo è il bambino, più l’adulto tende sistematicamente a farlo vincere.
Non credo che questa sia la soluzione giusta per rafforzare la sua autostima e ciò per due motivi: il bambino che non sa perdere al gioco si arrabbierà con se stesso e con gli altri quando perderà giocando con suoi coetanei; inoltre, se il muro è troppo basso da saltare non si sviluppa il piacere dello sforzo da compiere per superare l’ostacolo.
Immaginiamo una partita a dama: tutto va bene all’inizio e si gioca in un’atmosfera rilassata e gioiosa. All’improvviso, le cose iniziano ad andare male per il bambino, che si sente incastrato. Scatta, rovescia le pedine, si alza e va via, si chiude in camera sua o, addirittura, si mette a piangere.
Come reagire? Far finta di lasciarlo vincere per mantenere un ambiente sereno? Minacciarlo di non giocare mai più con lui? Cercare appena possibile di accogliere (= capire) la sua delusione?
Sicuramente la scelta migliore è quest’ultima. Cerchiamo, inoltre, di fargli capire prima di giocare che lo scopo del gioco non è quello di originare un vincitore che schiaccia il vinto, bensì di creare il piacere di “colloquiare” con l’altro (o gli altri) attraverso le mosse, le riflessioni, le scelte (anche se sbagliate).
Il bello del gioco è lo svolgimento, non la fine.
Il bambino è in piena fase di apprendimento della frustrazione di fronte alla sconfitta e Dio solo sa quante situazioni come questa dovrà affrontare e subire durante la vita.
Un consiglio fondamentale: evitiamo di crescere i nostri figli in un clima competitivo nella loro quotidianità e di valorizzare eccessivamente le loro “performances”.
Ognuno di loro, anzi, ognuno di noi, è un insieme di qualità e difetti, di capacità ed incapacità.
Cerchiamo, quindi, di crescere i nostri bambini nella tolleranza e nell’accettazione dell’altro ma soprattutto di loro stessi.
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